Out of the blue

Sono stata a lungo assente da questo blog, presa da quella cosa incredibile e complessa che chiamiamo “vita”!

Qualche compleanno, un anniversario di matrimonio, feste ad invito, due vacanze in Svizzera, due in Sudafrica, un paio di interventi chirurgici, un’amica rientrata in Italia, un’altra negli Stati Uniti, degli esami scolastici, alcune buone pagelle, alcuni workshops di yoga, delle cene e dei braai, come quaggiù si chiamano i barbecue, qualche play date (molti playdate = andare a giocare a casa di questo o quell’amico) qualche sleep-over (troppi sleep-over = andare a giocare e cenare e poi restare a dormire a casa di questo o quell’amico), una serie piuttosto lunga di uscite con le sisters del gruppo di yoga e con il gruppo internazionale del complesso residenziale in cui più o meno tranquillamente abitiamo; alcune importanti deliziose colazioni con Alice, a scadenza settimanale ed immancabile, ideali per ascoltarsi meglio, alcuni deliziosi pranzi con Beatriz, a scadenza imprevedile improvvisa e vulcanica ma sempre del tutto piacevoli, ideali per guardare le cose da una prospettiva diversa, un paio di libri illuminanti, e un po’ di ricerca per cercare di ideare e strutturare delle lezioni di yoga ogni settimana diverse ed ogni volta complete, e quindi troppo poco tempo rimasto per la meditazione, per la pratica personale, per lo studio approfondito nella disciplina che ho scelto come un modo di vita e conseguente perenne senso di colpa!

In mezzo a tutto questo, una crisi esistenziale o due, orientarsi con le prime tempeste ormonali di un figlio adolescente alle prese con le sue prime crisi esistenziali, fare i conti con un’improvvisa colica renale in una domenica mattina di giugno e scoprire di essere piena di calcoli renali grandi e piccoli e finire in urgenza in sala operatoria, che qui chiamano theater, che ridere, sotto le mani, peraltro enormi, di un simpatico nefrologo chirurgo Nigeriano, ed occuparsi finalmente anche della faccenda della gola, con la voce che si era deteriorata giorno dopo giorno tanto da non riuscire quasi più a parlare la sera, affrontare con grande paura la faccenda del nodulo sulle corde vocali, che un altro chirurgo, con le mani peraltro molto piccole, chiama, indirizzandoti uno sguardo benevolo e rassicurante “tumore”. Al 90% benigno. Ma tant’è! E quindi BOOM, che botta! E quindi, aspetta. Pausa. Forzata ma, obbligatoria.

Va bene è giusto, mi fermo. E’successa cosi tanta vita negli ultimi due anni e mezzo, tante corse, tanti aerei, tante scatole da fare e disfare, tanti volti, tante sfide, tante prime volte, tanti saluti, tanti sospiri, tanti punti interrogativi, tanti punti di sospensione, tanti “ma, chissà?”, tanti “non so ce la faro’”, tanti “vorrei crederci ma non oso”, tanti “spero”, tanti “provo”, tanti “ce la sto facendo?”, tanti “forse piano piano ce la sto facendo”… E poi un solo “ma dài, si, forse si che ce l’ho fatta”. E poi pero’, proprio quando mi dico sottovoce e sotto le coperte prima di addormentarmi per aprirmi ad un nuovo meraviglioso giorno, che ce l’ho fatta, ecco che mi devo fermare.

E ho capito, mi fermo. Freeze. Gelo. Con una parola cosi balorda, una faccenda cosi insidiosa, una cosa che si è annodata a me per effetto di chissà quale sortilegio o stregoneria, non ci avevo mai avuto a che fare! E che strano l’effetto. Che ribaltamento veloce di pensieri e conseguenze. Di quali pirouette è capace la mente, quando esposta ad eventi che non si attende e che non sa come dimensionare, ma nell’istante stesso della presa di coscienza invece già lavora, posiziona, colloca e amalgama al resto già esistente e presente. Di quali voli pindarici è dunque protagonista questa mente, se si ritrova per forza di cose a fare i conti, messa alle strette con una cosa che arriva cosi, “out of the blue”; e che destrezza nel dare invece molto bene, e con molta precisione le dimensioni della nuova scoperta. Quale capacità analitica e lucida d’un tratto assumono i pensieri: interrompero’ le lezioni, faro’ una lista delle cose da fare durante la settimana di silenzio, mi comprero’ un campanello e chiamero’ i bombis in questo modo perché vengano da me, o quando è pronta la cena, scarichero l’applicazione che trasforma in sonoro le parole digitate, perché Siri è tremenda e parla come un robot dal genere sessuale ambiguo con accento britannico in mezzo ad un silenzio tombale; se è maligno rientro prima del tempo in Svizzera, se è benigno, faccio un fioretto ed il voto solenne che non maltrattero’ più la mia voce, e faro’ più scale con le gambe che con le mie corde vocali. Giuro!

Poi la sorpresa-miracolo. In convalescenza dall’intervento ai reni, e con un bypass inserito nel rene, l’unico yoga che mi è concesso è quello della respirazione e della meditazione. Rientriamo in Svizzera, in vacanza, quelle due settimane di Luglio. Piano piano respiro, e mi muovo dolcemente, con pazienza e con rispetto, su quel tappetino di yoga che ho quasi smarrito all’aeroporto di Zurigo. Mi siedo in meditazione e a respirare e con il terzo occhio guardo non senza timore, il nodulo grosso e rosso, e brutto a vedersi, mio Dio, comodamente appoggiato tra una corda e l’altra. Nasce sulla sinistra, si appoggia sulla destra. Allora Avril, la mia collega di Zen Yoga Studio mi dice “per favore visualizza la luce blu di Visuddha, il chakra della gola, e cerca di vederla mentre cura e guarisce questa parte del tuo corpo, mentre la tua capacità di comunicare, di farti ascoltare, di trovare la tua vera voce si manifesta e si esprime al meglio”. Mentalmente, perché non posso più cantare, ascolto e ripeto Gayatri mantra, uno dei più antichi e potenti mantra trasmessi fino a noi dalla tradizione indù dei canti religiosi-meditativi. Le parole invocano la “luce” che rischiara il nostro percorso, mentre il crescendo e l’intensità della melodia, insieme ai suoni in sanscrito, vibranti, trasportano in una dimensione che sembra fatta per trascendere ed attraversare con pace, la sofferenza umana. Quella del corpo, ma anche quella di ogni possibile altro ambito.  La mia amica Cindy, grande conoscitrice dell’importanza del pensiero che influenza le nostre azioni, e fan sfegatata della teoria sulla legge di attrazione, mi prega di visualizzare ogni giorno, che quella pallina odiosa si riduca, diventi più piccola, sempre di più, e smetta di ostruire il passaggio del suono in mezzo alle due corde, liberando la mia voce dalla strozzatura poco elegante che la costringe in una raucedine perenne e al rischio di un conseguente silenzio. Perenne. Paura, anzi terrore.

E’ d’altro canto vero che quando la malattia sopraggiunge, scopriamo di noi risorse che non conoscevamo ancora di avere. Ho anche desiderato quel silenzio. Ho anche agognato quella pace per forza, che non ti chiede niente in cambio. Ho sentito con precisione di avere voglia di non parlare più e di chiudermi in un silenzio, si, religioso, con il pretesto della convalescenza post-intervento. Ma temere di non parlare più e di non dire più e di non insegnare più, è tutt’altro.

Forse perché in passato mi è stato rimproverato di “parlare troppo”? Forse perché un’anima cosi diversa dalla mia mi ha detto che “ogni tanto bisogna imparare a mordersi la lingua”, poiché la mia, libera e giovane oso’ sfidarne le ingiuste maniere in un momento topico e tragico della mia esistenza? Forse. Ma questo succedeva perlomeno 3 o 4 vite fa. Eppure, oh si, il tumore questo è: solidificazione e materializzazione nel tempo, di dolore non vinto, non elaborato e non integrato con accettazione, ma che si è vissuto da vittime, senza proteggersi ed agire in modo da arginarlo e superarlo. O forse perché, in un altro momento altrettanto topico ed altrettanto tragico, quando ho chiesto aiuto a chi poteva e sapeva ascoltare, non sono stata accolta, ascoltata, capita ma mi sono vista volgere le spalle senza capire chi non riusciva a capire, ascoltare ed accogliere? Forse si, forse no. Fatto è che il tumore adesso è là, mi guarda dalla telecamera inserita in gola proprio mentre cerco di resistere ai conati e sento la mia voce produrre dei suoni che non sembrano nemmeno partire da me, ma che mi riempie di tristezza, non sapere più come controllare.

Il fatto è anche che quella mattina di Luglio, nel vecchio ospedale di Olivedale, nella camera fredda fredda dell’inverno non riscaldato di Joburg, quando mi sono risvegliata dall’anestesia e ho sentito la gola tutta graffiata dall’intervento, non mi sarei mai aspettata che il chirurgo dicesse, questa volta con sguardo benevolo ma incredulo e commosso “ in effetti non c’è stato nessun intervento”. Mentre dormivo, hanno cercato e rovistato, grattato e controllato, ma tra la corda sinistra e quella destra il nodulo era sparito. Benché non normale, non spiegabile, benché non ancora documentato, in casi analoghi lesioni cosi estese non si riassorbono spontaneamente, quel nodulo non si è più trovato.

Forse scivolato via tra le visualizzazioni del chakra della gola e fuoriuscito da quella luce blu che avvolge e protegge la nostra capacità di comunicare efficacemente? Forse caduto giù, giù, giù, fino allo stomaco, che ha finalmente saputo digerire quel malloppo rimasto di traverso per cosi tanto tempo? Forse inglobato felicemente ai residui di quelle pene, anch’essi sedimentati e cristallizzati all’altezza dei reni, nelle pietre dei mie pensieri più difficili? Forse assimilato in qualche pacifico modo finalmente, nell’interezza del mio organismo, e forse finalmente disciolto, dopo i vecchi processi alle intenzioni che mi erano stati rivolti e solo recentemente risolti? Forse fatto a pezzetti molto piccoli, dalla voglia di essere comunque felice, di prendere le cose come vengono, quando vengono, e dove vengono, la voglia di fare posto al nuovo, di alleggerirsi, di liberarsi, di allontanarsi da quello che non mi serve. Più.

Quindi fuori. Out. In un certo senso quindi, “Out of the blue”.

Titolo: Mia moglie è stata rapita da un ninja, aiutatemi ad imparare il kung fu per salvarla. Donate 5R.

Una delle cose più interessanti di questa città sono i messaggi come questo, sui cartelli delle persone che fanno la questua di vigilanza, piantonati ai semafori. Leggerne di cosi originali da’ cosi gusto, che ti distrae dalle solite occhiate furtive ai tre angoli degli specchietti retrovisore e laterali, in rapido controllo anti-grane, rischi, potenziali furti o altre esperienze traumatiche. Arrivare primi in fila al semaforo da’ un po’ l’ansia, ma credo che con la felice penuria di load shadding da sei mesi a questa parte, la maniera di guidare si stia modificando. Giacché il semaforo non è più prevalentemente spento, ci si trova molto più regolarmente di un tempo a fermarsi davvero agli incroci, non solo a rallentare sempre di più in prossimità di questi, per poi attentamente attendere il proprio turno di passaggio in senso, ora lo so, orario. Che è un sistema civilissimo e che a dire il vero ho visto finora funzionare estremamente bene. Ammetto che se la stessa cosa avvenisse a Napoli, il numero di incidenti, feriti e forse morti, sarebbe probabilmente spaventosamente alto.

Forse i fenomeni da semaforo che dipingono cosi tipicamente e a tinte forti le strade di Joburg, si trovano già in lenta via di estinzione e noi siamo gli ignari testimoni di un cambio epocale. Forse siamo partecipi del progressivo declino di un fenomeno pubblico e sociale, di una realtà che contribuisce a suo modo all’economia del Paese, destinato ad una fisiologica e logica diminuzione, come è successo agli arrotini ed ombrellai delle nostre parti, chi lo sa? Forse la fantasia dei cartelli di richiesta di denaro, cosi come la distribuzione di non vedenti o altri disabili accompagnati da una persona abile che tiene a braccetto da un lato il presunto cieco o la presunta cieca e da un altro la piccola tazza di latta, nella quale tentennano le monete di cui il cieco tiene mentalmente il conto, entrerà a far parte di quei ricordi che tra vent’anni farciranno i discorsi un po’ nostalgici delle donne sedute all’ombra degli alberi, alla fine della loro giornata di lavoro.

Quando pensiamo che in questo paese le prime elezioni senza distinzione di razza sono datate 1994, viene da chiedersi di cosa parlottino le maids che riposano sull’erba dopo le 5 del pomeriggio, con ancora addosso i loro grembiuli colorati e il fazzoletto in testa, che siedono immancabili in quella posizione scomoda ma per loro facilmente eretta, con quelle gambe instancabili e nude tese dritte davanti a sé e la schiena comunque dritta, che la maggior parte dei miei studenti di yoga pagherebbe per riuscire a mantenere senza difficolta il tempo di 10 respiri. Le maids, il tempo per lo yoga non lo hanno ancora in genere, ma alcune di loro studiano per diventare psicologa, poliziotta, infermiera, estetista, per restare nel loro Paese, portare il loro contributo e privare di due braccia tutto-fare la comoda vita della comunità non di colore. La sera alcune di loro, alla fine delle ripetitive ore di lavoro domestico, trovano ancora le energie necessarie per farsi qualche chilometro di marcia sostenuta, attorno alle nostre belle case, per tenersi in forma. Anche questo è un fenomeno in via di cambiamento. Quanto cambia anche l’arrivo di alcune di loro al mattino, a differenza di quelle che stanno a vivere qui in semi-isolamento affettivo, allontanate certo dalle tettoie di fortuna, l’odore di township, e la mancanza di acqua corrente e connessione elettrica, ma anche dai loro affetti, che fanno ingresso ancora fresche in volto, con una borsetta al braccio e dei vestiti graziosi, non raramente vistosi, con quell’aria da signorina e signora per bene che non è troppo diversa dall’aria che si danno le loro coetanee di Parigi, Friburgo, Barcellona.

Ma se è vero che l’apartheid è stato abbattuto quel giorno del vicino 1994, le separazioni e i mondi che stanno uno a parte dell’altro e che magari pagano le conseguenze dei possibili accostamenti, sono ancora vivi e vegeti e sbattuti in faccia sempre, sotto la luce del sole, ma soprattutto al buio, quando la paura tace sotto la coltre di stanchezza, anche se non va mai davvero a dormire. Come era andata a dormire Christina, la maid nostra, che dovrebbe vivere nella stanza con bagno ad entrata separata tra il garage e la cucina tutti i giorni, anche i fine settimana, ma a cui noi che l’apartheid non l’abbiamo conosciuto mai, abbiamo detto vai per carità, se hai una casa in cui tornare, un uomo da abbracciare, una figlia da controllare, una minuscola nipote nata con l’intestino non del tutto formato e che è viva per miracolo da cullare, vai per piacere, vai a viverti la tua verità, la tua libertà, non ti  limitare, non ti vincolare, se puoi e non ti costa troppo denaro o tempo, vai. Ci vediamo lunedì. Cosi lunedì all’alba Christina invia un messaggio e preoccupandosi di proteggere i miei figli da una vicenda spaventosa che non li deve spaventare, mi scrive che sarà in ritardo, che arriva dall’ospedale dove il fidanzato è stato operato domenica mattina, quando lo hanno portato li dopo averlo creduto morto, dopo gli spari alle ginocchia dei balordi che sono entrati nella loro casa, svegliandoli con gli spari direttamente, brutalmente, incredibilmente alle una di notte di sabato. Cercavano una cassaforte che naturalmente non c’era, e minacciando lui di violentare lei e rincarando la minaccia con una gambizzazione superflua e più crudele di tutto, hanno indotto lei ad afferrare al volo degli indumenti e a correre in strada fino alla polizia, fino a che la certezza di essere raggiunta da altri spari per lei, ha fatto posto alla speranza di arrivare alla stazione, trovare qualcuno disposto a seguirla e ad aiutarla a  soccorrere l’uomo che i vicini avevano dato per morto e sulla cui faccia avevano già allungato una coperta e che al suo grido ha risposto ci sono, sono ancora qui, non piangere.

Christina porta solo una delle storie che abbiamo ascoltato. Dicono che nel periodo delle feste, tra la polizia corrotta che ti ferma con una scusa perché sta cercando di aumentare la strenna natalizia, ed i ladri che cercano di recuperare più soldi per il proprio shopping di regali, la criminalità è in aumento. Ad una cena di fine anno abbiamo ascoltato la storia di una persona che al terzo furto in tre anni ha deciso di lasciare qui il marito al suo lavoro, e di rientrare con i figli piccoli a Roma.

Non posso biasimare la mancanza di coraggio, o di coerenza, o la volontà di convivere con raggi di potenziale rischio per la tua sicurezza, che non puoi arginare mai fino in fondo. Eppure controllare la psicosi è facile, perché ti guardi intorno e la gente sorride, ti saluta, è piena di allegria e le infrastrutture sono belle, le autostrade anche migliori di quelle italiane, al ristorante mangi molto bene, bevi anche meglio, le persone in genere sono positive, aperte, gentili e disponibili, il paesaggio è splendido, verde e lussureggiante, con pochi soldi ti offri un safari da favola, dei tramonti mozzafiato, la bellezza selvaggia di luoghi incontaminati, selvaggi, veri fino in fondo, respiri un modo di vivere che è più naturale e vicino ai ritmi delle persone che vogliono vivere una vita sana, tutto è fatto per incoraggiare la vita all’aria aperta, il movimento, lo sport.

E’ solo quando chiudi quella porta ed inserisci quell’allarme di casa che ti vengono in mente i racconti terrorizzanti, gli aneddoti disarmanti, le vicende altrui che preghi non diventino mai le tue. La tua vulnerabilità, toccata con mano ogni giorno, cosa fa alle tue certezze? Ti metti a fantasticare sulla bella serenità del lago in mezzo alle montagne, inizi a rimpiangere i negozi che chiudono alle 5 di sera e quasi ti mancano i pettegolezzi di quella mentalità un po’chiusa, che tende al controllo degli uni sugli altri, e che lo fa perché con tutta probabilità, per sua grande e meritata fortuna, non ha null’altro più di cui preoccuparsi. Pur di saperti di nuovo nelle mani di una legge che si fa rispettare, che non si piega davanti ad un colore o un altro, che non cerca di fregarti ma di proteggerti, chiudi gli occhi e speri che i tre anni trascorrano presto.Soprattutto quando Lui è fuori, non dorme sotto lo stesso tetto, quando sta a tre ore e mezzo di strada in mezzo al niente e chiedi a quella donna cui è stata fatta violenza di recente, di stare per favore accanto alla tua paura, per farle compagnia e dirle senza crederci che va tutto bene e non succederà niente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Io mi adatto

Adattarsi richiede tempo e volontà. Non è nemmeno possibile darlo per scontato, solo perché ci si è mossi da un posto ad un altro più di un certo numero di volte. E ciò perché ogni cambiamento rinnova la ricerca di un tentativo inedito per rimettere le cose in quello che scegliamo come il loro nuovo “ordine’, ma non pertanto determina un nuovo assetto, solo per aver intrapreso lo sforzo necessario perché tutto questo avvenga.

Vivere temporaneamente in un albergo è anonimo ed impersonale, oppure come ha commentato spontaneo uno psicologo di origine portoghese incontrato a scuola, è “bizzarro” e “deve avere un effetto negativo sulla vita quotidiana di tutti, soprattutto dei bambini”. Beh, se c’è una cosa che mi ha dimostrato il nostro arrivo a Johannesburg, e che la mia amica di tutta una vita, F., di Torino, compagna di merende, vita e filosofia conferma, è che i bambini, tra tutti, sono quelli che si adattano meglio, prima, ed in modo quasi indolore a tutte le novità. In questo “quasi” c’è margine, è chiaro, per segnalazioni di insicurezza, timori ed aspettative manifeste in modo più o meno conscio, ma non sono nulla in paragone alle più intime difficoltà di noi adulti che maciniamo chilometri, burocrazia, nuove leggi, regole stradali, rapide commutazioni di valuta, paragoni involontari di usi, atteggiamenti, tradizioni, con traduzioni letterarie e non di tutto ciò’ cui non siamo mai stati esposti fino a quel momento, e cerchiamo di tassare tutto in fondo al barile, volentieri e senza remore, vedendo poi nostro malgrado spuntare fuori dall’armadio della nuova casa lo scheletro di confusione mentale, nervosismo e senso di inadeguatezza, che abbiamo appena vissuto. E quel che è peggio, non solo senza averne mai fatto parola o profferito prima una sola lamentela a riguardo, ma anche spesso, senza averne preso coscienza. I bambini sono ancora cosi come sono. Noi siamo buffi se non ridicoli, ecco come siamo. Noi non ammettiamo.

E poi diciamolo, anche se vorremmo fosse diverso, non sono i bambini e ci mancherebbe, che organizzano con strategica e machiavellica tattica il contenuto di bagagli, trousse pronto soccorso per ogni necessità, cassetta pronto uso con suppellettili da cucina per approntare una prima 1° colazione, valigia con cambio lenzuola pulite per la prima notte in casa nuova, sacca della necessaria miscellanea dell’ultimo minuto al cui interno, in genere, cerchi di stipare il contenuto della prima lavatrice nel nuovo approdo, borsa documenti e valori e passaporti, rifugio peccatori di ciò’ che non ci è entrato in tutte le altre borse, o casse, o bauli o scatole, contenitore-contenente in genere quegli oggettini noiosi ed anonimi che girano stanchi per una casa, a scelta una vite che è sempre stata inutile e non si da dove provenga, un rotolo quasi del tutto esaurito di scotch, le clips impolverate dello svuota-tasche di prima e il pupazzetto dell’uovo Kinder con cui nessuno gioca mai, ma che non viene gettato. Insomma, le prove inconfutabili del chaos del tuo imbarazzo di essere in moto tra le tue incertezze di sempre e quelle che senza dubbio ti aspettano presto si possono trovare ovunque, lungo il cammino tra il prima ed il dopo. I bambini, loro, sono quelli che in qualunque posto ti trovi, campeggio, casa, dai nonni, amici, grande albergo o tugurio, ad un certo punto ti spaventano immancabilmente con una di quelle loro legittime domande che esige quasi “mamma, dove è il mio…pigiama? spazzolino? iPad? doudou (che è come si chiama da noi, in memoria alla stagione parigina, il peluche preferito e malconcio che ti segue dappertutto)?, costume, cappello, orologio, quaderno di matematica? Ma in questo modo ti obbligano a ricostituire quell’ordine mancato per forza, perché domani c’è già scuola, dopodomani un compleanno, tra quattro giorni uno spettacolo  e tu pedali, di corsa, e fai e fai e fai, ricostruisci, ricostruisci, ricostruisci, da subito. PAM!

Due mesi e una settimana dall’arrivo. Se in albergo era odioso fare i conti con la pazza signora delle pulizie cui regalavo le mele per i figli e che mi ha bruciato i pantaloni di MaxMara, se era odioso litigare con le grucce dell’armadio troppo alto, quelle anti-furto evidentemente impossibili da separare dal bastone al quale sono saldamente agganciate e dal quale non è pensabile staccare i tuoi vestiti senza arrabbiarti, se era odioso avere a disposizione due pentole contate ed una padella iper-aderente con bordi alti con cui mi era impossibile preparare le mie amate omelette, se era odioso che il giro letto fosse l’unico spazio consentito attorno alla nostra intimità e non avanzasse nessun centimetro per srotolare insieme alla mia colonna vertebrale il tappetino yoga ed il mio piccolo corpo senza troppe esigenze, le stanchezza di un trasloco internazionale doppio hanno comunque portato dopo un mese di tempo, una mole di lavoro ed un senso di spossatezza che hanno talvolta minato sorriso, buone energie e voglia di fare.

Come non bastasse, ciò’ che il trasloco all’arrivo della nostra roba, quasi come la intende Verga ha portato, è stato soprattutto un inaspettato senso di preoccupazione per le nostre cose. Preoccupazione che possano trasformare noi e la bella casa presa in affitto, nei bersagli dei troppi furti di cui terroristicamente parlano qui le persone, con il gentile intento di metterti in guardia e renderti come loro dicono “conscio” della realtà in cui viviamo. Sono buffi anche loro pero’, che se da una parte fanno cosi e ti mettono idee in testa che non avresti mai concepito altrimenti, dall’altra come si sente parlare di furto o altro crimine, tutto quello che sanno poi dire suona vagamente giustificatorio e con un ritornello che ho già sentito e recita più o meno cosi: “Bhé, in ogni parte del mondo comunque succedono crimini in ogni momento, no? Mia sorella vive a Londra e non prende mai un taxi dopo le 8 di sera! Mio cugino sta a New York e non prende la metropolitana da 20 anni. Quale posto al mondo è veramente sicuro al giorno d’oggi?” Well, I am sorry for you and your sisters and brothers guys, BUT, non è mica e nemmeno tanto normale a Campo Felice di Roccella, Lucca, Rivoli o Busto Arsizio vedere il filo spinato trionfare in cima alle mura del complesso elegante, verde, come in quello con i campi da tennis, o il golf, i laghetti finti con le vere paperelle e tanto di carpe, gli stagni con i ranocchi, gli alberi lussureggianti con nidi e nidi di stupendi uccelli africani che ti svegliano alle 4 e 35 del mattino, nel quale si rifugiano quelli come noi, per illudersi di vivere liberi e al sicuro dai pericoli esterni. I am sorry for you guys, BUT scusate se io un paio di posticini al mondo a tasso del crimine rasente lo zero e stra-sicuri li conosco, a caso due: la Svizzera e gli Emirati Arabi. E’ forse colpa mia se ho conosciuto peggio ma anche decisamente moooolto meglio?

Poiché non siamo più bambini e stiamo perdendo il dono della verità, anche se come yogi ci pensiamo segretamente in cammino verso il suo difficile recupero, anche se ci crediamo spontanei tutto il tempo ed autentici per principio, è nei sogni che rielaboriamo le verità che ci nascondiamo a ripetizione senza volere. E poiché a differenza dei bambini non poniamo a noi stessi né ad altri le scomode domande sull’incolumità nostra e di chi più al mondo amiamo, all’arrivo dei due container e la visione delle cose “nostre” per lo più spaventosamente abbandonate in quel garage doppio a rimarcare il pericolo di non riuscire a ri-collocarle tutte, ho cominciato a partorire sogni allucinati in multi-color, ricchi di ogni concepibile e crudo dettaglio, che avevano per tema la stessa perdita, compromissione, o indebita e cruenta sottrazione con tragiche conseguenze, delle cose da noi possedute. E ciò non per timore che quelle stesse cose vengano effettivamente rubate, ma ovviamente ed unicamente perché a causa di queste si corra in effetti il rischio di venire aggrediti da chi non ha O scrupoli, O sufficiente valore da attribuire alla vita umana per risparmiartela, O entrambe le caratteristiche. Che non mi pare poco, ecco.

Ora, non ho mai pensato a noi come ad una famiglia benestante. Soprattutto non dopo aver effettuato un rapido e piacevole passaggio da Dubai, terra ricca e straricca davvero, al di là ed al di sopra di molte paragonabili ricchezze che sono altrove possibili e là stracciate ad appena qualche metro dagli arrivi internazionali del suo scintillante e dorato aeroporto. E’ vero d’altro canto che la profondità del contrasto sociale esistente tuttora in Sudafrica obbliga un europeo medio, financo un Italiano, a ri-dimensionare E il proprio potere di acquisto in una terra cosi giovane dal punto di vista della democrazia e della distribuzione della ricchezza, E la propria visione sulla “libera” ed incontrollata circolazione migratoria” (che farebbe arrossire i nostrani leghisti di uno qualsiasi degli stati Europei) da altri stati africani ancora peggio in arnese del Sudafrica per guerre, carestie, regimi dittatoriali, intolleranze religiose ed etniche e spesso, come è il caso, per tutte queste ragioni insieme. Insomma il Sudafrica è un’ancora cui si aggrappano migliaia di persone il cui destino sarebbe ancora più vano e disperato delle condizioni di lavoro troppo spesso ancora inumane cui molte persone qui si sottopongono ogni giorno. Ma per questo motivo, il Sudafrica e Johannesburg come punto di attrazione industriale e commerciale in modo particolare, diventa la meta di una fetta di popolazione di cui ogni Paese desidera sbarazzarsi e che finisce con il popolare nel sonno, per l’appunto, gli incubi dell’altra metà della popolazione locale o straniera che sia, che si rifugia di norma in questi circoscritti e ben apparati cerchi di relativa sicurezza, nella speranza di fugare la maggior parte dei pericoli.

Nonostante il filo spinato elettrico, più discreto ed elegante di quello che avevo trovato a Lagos per la carità, ma sempre filo spinato di per sé, dell’allarme di casa, del codice di accesso da fornire ad ogni ospite e/o persona che sta per venire a trovarti, nonostante non mi sognerei mai di mettere in evidenza quei pochi gioielli o beni di lusso che possiedo, nonostante le misure di precauzione che ti consigliano, nonostante tutti i miei bei Nonostante,virgola, tra l’albergo e la nuova casa con le nostre cose personali dentro, le cose che ho faticosamente spacchettato e ricollocato con abbondanza di sforzo, fantasia ed indispensabile originalità, giacché questo ci vuole quando un mobile che ospitava le tue calze in camera, adesso ospita i tovaglioli nel dining room, virgola, al di là dei sogni sui furti e la storiella che ti racconti che è il tuo modo per mettere in atto sani meccanismi di difesa emotiva, virgola, lungo un periodo di due mesi cresce in te la positiva sensazione di avere già ottenuto comunque uno stile di vita relativamente libero. Sensazione od illusione che sia, hai sempre visto il bicchiere mezzo pieno, non vedi perché adesso dovrebbe essere diverso, hai sempre sorriso alla vita senza timori autolesionisti, autocastranti ed autodemoralizzanti, hai sempre sentito l’ascensorino che va sù e giù nell’esofago tra la trachea e lo stomaco con le farfalle, alla proposta di un nuovo cambiamento radicale di stato, perché hai fiducia nella vita, perché ami le nuove sfide, perché a te l’adrenalina del bungee jumping te la dà il volo nell’aereo di linea che ti trasporta da un pezzo di te a quell’altro, mentre sorseggi il the amaro di ordinanza e vai finalmente al cinema, facendoti una sana scorpacciata di film che diversamente non riusciresti mai a guardare, in qualità di madre di due creature sotto i 16 anni!

Fai le tue compere solo in centri commerciali è vero, più o meno pattugliati da ibride guardie di sicurezza-parcheggiatori da 2 Rand a manovra, ma ti dici che questo è vero ormai per la grande maggioranza della popolazione mondiale. Cerchi di ignorare il fatto che a Torino, da dove vieni tu, troveresti sempre un centro urbano fatto di quartieri vitali i cui negozi specializzati in questo e quel prodotto si trovano ancora, che in modo identico anche a Parigi avresti l’opzione per frutta e verdura fresca di stagione da scegliere in un mercato rionale e non saresti obbligata a trovare le poche cose che davvero mangi in mezzo a corsie e corsie perditempo costellate da dozzine di brand diversi per un vasetto di yogurt con 18 prezzi differenti. E vai a prendere i tuoi figli dove devi mostrare il distintivo con il logo della scuola ma pazienza, significa solo che la scuola controlla l’accesso al campus, ben venga, poi incontri comunque una nuova amica a pranzo anche se in un centro commerciale tappezzato di ristoranti i cui déhors solo raramente si degnano di non dare sul parking, ed anche se non hai ancora visto Mandela Square perché ci sono i lavori di ricostruzione in corso, senti molto bene che ci sono solo un’area o due della città in cui si cammina in effetti liberi per un po’ di struscio con ristoranti che trovano respiro su una strada vera e ci sono veri negozi piccoli ed indipendenti, e vedi anche pero’ che nessuno ci va, perché magari la zona è visitata da venditori ambulanti di fortuna, tra l’auto e la via ci sono troppi incustoditi passi da fare, ed anche se stabilisci la tua nuova routine andando e venendo dallo studio di yoga dove hai già trovato delle lezioni da impartire e ti senti super fiera dei tuoi risultati di conquista nella nuova landa dopo cosi poco tempo, capisci molto chiaramente che qui le persone non conoscono il valore della libertà che non c’è, forse non c’è mai davvero stata, o forse non c’è più e chissà quando ci sarà. Se non conoscono il suo valore, come possono capire il prezzo che si paga a rinunciarvi? Sorrido loro e sento una sincera empatia per ciò’ che sono, fanno e cio che non conoscono. Provo empatia anche per quello che mi raccontano e per come vivono, soprattutto per come possono vivere. Posso capirlo io per loro, ciò che è evidente non siano in misura di conoscere loro. Ma quanti saprebbero capire cio’ che conosco ed ho lasciato io?

Cosi finisce che fisiologicamente e logicamente, ti senti stanca ma fiera e dici “avrei solo bisogno di una piccola pausa” per contemplare tanto lavoro e ricaricare le batterie vitali, ne ho bisogno adesso, per continuare dopo. Detto questo, vivere vuoi vivere comunque al 100% e poi dicono da anni che questo sia un paese bellissimo, tra le mete turistiche internazionali preferite in tutto il mondo, andiamo a scoprirlo questo Sudafrica, andiamo a vederlo da vicino. Cosi passi un pomeriggio a cercare in rete dal tuo telefonino, perché a casa ancora internet non ce l’hai, e tiri fuori dal cappello magico una località sulla costa, un appartamento sicurizzato e dici “si va al mare”. E poi succede.

E se succede è sempre quando non pensi di meritartelo, e che finalmente hai trovato un soffio di momento per respirare davvero, fermarti e tirare due secondi quei remi in barca giusto allo scopo di recuperare le energie necessarie per rigettarli in mare e remare ancora e ancora, più forte, se ti è possibile. Ma invece ecco, che mentre sei li intenta a ristabilire quell’intimo legame tra te ed il sole nello spazio preciso tra la fine della schiena e l’inizio del bikini, che finalmente la sola occupazione delle mani è quella di girare con lentezza le pagine di “Cent’anni di solitudine”, che le onde tiepide dell’oceano Indiano insegnano ai bombis a fare bodysurf e cullano il tuo respiro profondo, che tuo marito si rilassa per la prima volta da mesi abbassando la guardia e abbandonandosi ad un sonnellino pomeridiano, ecco che, alla fine di una splendida giornata di mare, tuo figlio ti chiede di accompagnarlo in bagno e quando ritorni le palpebre e la guardia le abbassi tu, fosse solo per 8 minuti. Ma in quegli 8 minuti rubati e meritati e Dio lo sa come sono stati meritati, si spengono dopo due mesi tutti gli switch uno ad uno e l’abbandono è lieto e dolce e mai penseresti che qui come altrove tu non possa permettertelo. E’ una domenica al mare, relax.

Invece quando ti rialzi dalla sabbia soddisfatta e lievemente intorpidita per raccogliere le carabattole e rientrare, vedi senza crederci e dicendoti che c’è senz’altro un’altra spiegazione, pensi che hai solo bisogno di mezzo minuto per sbadigliare e svegliarti meglio, virgola, che una borsa manca all’appello. Era semplice, discreta e non aveva nulla di appariscente, ma dentro c’era ciò che la società impone per essere identificati, condurre un’auto, pagare i conti ed il ristorante, un telefono e gli occhiali da vista di un figlio. Ciò che è peggio, grazie ladro, gli occhiali da vista di mio figlio.

Allora, un po’ ti senti tradire. Allora un po’ ti senti Antonio Albanese nel personaggio che adoro di Alex Drastico, che parla in dialetto siciliano rivolgendosi mentalmente al ladro del suo motorino. Credi nel Karma e non solo adesso che insegni e condividi con altri lo yoga che pratichi tu e trovi una spiegazione molto olistica a tutto e quindi anche a questo, analizzi che i sogni premonitori sulla roba rubata significano che puoi fare a meno delle cose, che dalle cose non dipendi, che non dicono chi tu sia, eventualmente servono a dire qualcosa e neanche sempre, su cosa tu possieda, ma in realtà servono solo allo scopo di vivere, appunto, all’interno di una società basate su regole, norme e leggi. Che il non-attaccamento alle cose materiali può’ scremarsi ancora e ancora, e infatti ripensi a quando e quanto con ogni trasloco hai dato, non venduto, non scambiato, DATO a chi ne aveva davvero bisogno, o perché hai visto che quella cosa non serviva più od era in più, e questo anche nel caso, dispiace ma è cosi, di quelle cose donate che pero non potevi più trascinarti via dappertutto visto che non erano di alcuna utilità, anche se provenivano dall’affetto di altri che hanno creduto forse di farti cosa gradita, ma che tu ad un certo punto hai sentito come unitili e piccole zavorre che ti impedivano di librarti in volo libera, e ciò senza mai credere di fare cosa sgradita, donandoli ad altri. E’ bello non essere attaccati alle cose, è leggero, è sano, è andare dritto all’essenza, è molto meglio. Di fatti non provi dispiacere, in effetti, sono cose. C’è perfino margine per un leggero ma distinto senso di liberazione. Impari: meno possiedi, meno occorre pre-occuparti di quelle cose e godere di maggiore energia e tempo da consacrare a cio’ cui davvero tieni.

 Pero tuo figlio deve andare in giro con degli occhiali da sole graduati anche dopo il tramonto e non è comodo e tu non puoi più guidare e non è tanto facile, e poi hai perso tutte le belle foto del viaggio lungo sei ore di strada in questo Sudafrica che eri venuta a scoprire e non è carino, e devi pre-occuparti poiché in questa società cerchi di viverci, di bloccare le carte di credito e quindi ti viene fatto di pensare che se fossi qui in vacanza da sola con i tuoi figli, non disponendo più di contanti, carte di credito, patente e telefono, sarebbe davvero antipatico. Tornare all’appartamento? Pagare una cena? Un po’ complicato in effetti. Ringrazi ancora per come sono andate le cose e che in fondo nessuno si è fatto male, pero’, PERO’.

Pero’ Sudafrica scusa, sei gentile e cordiale e quanta bellezza nei tuoi diversi paesaggi, ma se adattarmi significa che per tre anni non posso permettermi di schiacciare un sonnellino in spiaggia, allora non ci siamo, e non andiamo d’accordo. Noi ti stiamo portando più luce, ricordi? E’ cosi che ci tratti in cambio? I nostril figli a scuola imparano l’Afrikaans, guidiamo con i finestrini chiusi anche se scoppiamo di caldo e non giriamo mai senza un buon motivo dopo che è sceso il buio. Posso vivere senza un centro storico, anche se mi fa impressione, senza una chiesa secolare che non sembri una fabbrica, senza un monumento che non sia più vecchio del 19esimo secolo. Posso vivere del tutto anche se mi dispiace parecchio, senza monumenti o belle chiese affrescate con opere di bellezza e fama internazionali, posso stare senza biblioteche nazionali, pinacoteche e teatri come io li intendo o senza poco più di tre musei contati. Perché avete altro e CHE altro, e sono pronta e curiosa di scoprirlo ed è quello che ho tentato di cominciare a fare in questa breve vacanza nella mia nuova casa. Posso vivere senza la mia storia, nella storia vostra, che pesa ancora come un macigno, perché è fatta di strade lastricate di sangue, quando da noi le strade erano usate già da due secoli per lo struscio cittadino delle vetrine, gli artigiani, le gelaterie ed i Grand café per bene, che mi mancano, e mi sono mancati, dal momento che ho lasciato la mia Turin, la mia prima casa. Ma se adattarmi significa che non possiamo rilassarci davvero, a meno di stare dietro al filo spinato di un “estate” o un altro, con guardie pattuglianti giorno e notte, Joburg no, non va bene. Mi dispiace per te e ti capisco, ma non è giusto per me. Mi capisci?

A casa

Ci sono giorni un po cosi. Che l’appetito vien mangiando. Che la confezione di zucchero si rovescia per terra, ti cade una tazza tra le mani, non trovi un indirizzo importante e ci dovevi proprio andare in quel posto, che ti ricordi di dover andare in posta solo quando sei rientrata a casa e comunque non hai idea di come funzionino le poste qui e la cosa ti da’ un minimo di apprensione. Ci sono i giorni in cui il centro commerciale in cui volevi entrare lo hai appena superato e non sai più come arrivarci, che per cercare di rimediare prendi l’uscita come entrata e devi fare marcia indietro su una macchinina noleggiata con zero motore e in salita, prima che un tir ti venga addosso, dopo aver fatto consegna. Giorni un po’ disordinati, nel micro ordine che a tre settimane dall’arrivo in un nuovo Paese, sei riuscito incredulo a creare e che già rappresenta la tua piccola zona di conforto.

Mi domando seriamente quanto sorridano di noi guardandoci da lassù, gli dei e le anime trapassate e felici che ci hanno amato in vita. Chissà cosa pensano davvero, a vederci cosi piccoli in fondo, nel rabattarci tanto quaggiù per trovare una nuova casa, un’automobile, prendere un appuntamento, per trovare una nuova scuola di yoga, un nuovo parrucchiere, un nuovo medico, un nuovo dentista, un nuovo ottico, un nuovo negozio con perfetto rapporto qualità-prezzo. Perché ci attacchiamo sempre alle stesse cose per sentirci un minimo al sicuro? Perché dipendiamo dai nostri riferimenti e ogni volta che ci spostiamo ci adoperiamo per ricreare quel microcosmo conosciuto e caro, traslocandolo in un nuovo posto?

Perché siamo piccoli ancora e abbiamo bisogno della nostra aria di riferimento di base per non sentirci troppo persi. Perché non vogliamo lasciare spazio allo sconforto che potrebbe prenderci ogni volta che un tentativo di prova si traduce in fallimento. Perché se abbiamo trovato il distributore di benzina senza far ricorso al GPS, celebriamo noi stessi e l’un l’altro con un piccolo applauso, perché ci facciamo bastare di orientarci da soli con una mappa per sentirci contenti dei nostri sforzi. Perché vogliamo sentirci a nostro agio lontano da casa anche se ci troviamo a migliaia di Km di distanza e conosciamo cosi poco di questa cultura unica. Perché odiamo lamentarci e sappiamo che ce la possiamo fare, ce la faremo e anzi ce la stiamo già facendo. Perché al quarto tentativo l’ho trovata la scuola di yoga ed è stata bella la mia lezione e me la sono goduta ancora di più visto che mi era costata altri tre tentativi a vuoto.

Se fossi in Cielo o fossi una dea, sorriderei di tenerezza alla vista di queste piccole imprese quotidiane. Se fossi lassù nell’Olimpo o nella pace eterna, avrei compassione per questi umani affanni e le nostre frustrazioni momentanee. Se fossi fatta di etereo e non di corpo fisico, energetico, mentale, intuitivo e infine spirituale, li capirei tutti quegli affanni e invierei messaggeri e messaggere d’amore per correre in soccorso di noi anime disordinate e scaltre. Ed è forse questo cio‘ che per l’appunto accade in alcuni momenti, anche se non sempre ce ne rendiamo conto. Ma sono qui per il momento e cerco solo di capire e di cavalcare tutte le mie onde quando decidono di arrivare.

Alla Monaghanfarm domenica ho incontrato una donna intelligente ed interessante che è di qui, ma ha vissuto insieme al marito e alla loro famiglia per molto tempo in Australia. Le ho chiesto dove sia ‘casa’ per lei e dopo aver ascoltato la sua chiara risposta, mi sono sentita chiedere dal mio canto, quanto tempo in genere io impieghi prima di considerarmi a casa, nel Paese che mi ospita. Ho adorato il ricorso di quel “in genere ” da parte sua. Mi sono sentita una specie di fenomeno da baraccone intervistato da una giornalista curiosa, ma poi ho lasciato scorrere il flusso di quelle parole e ho solo cercato di rispondere per la prima volta a questa domanda, soprattutto per me. Ne è nata una discussione stimolante e sui generis, che mi ha divertito ed intrigato molto.

Naturalmente mi rendo conto che non è comune sentirsi fare, o perlomeno non lo è chiedere, deteriminate domande. Mi rendo conto poi che il popolo dei nomadi di fatto che siamo e che è poi abbastanza vasto nel mondo, se le pone certo, ma la stragrande maggioranza delle altre persone non lo deve fare. La maggior parte delle persone non se le vorrebbe porre certe domande nemmeno sotto tortura, perché l’idea stessa di spostarsi da un’altra parte procura in loro sofferenza e confusione. Certo, non che non possa capirlo, anzi. Non è esattamente quel che speravo 15 anni fa sposandomi, ritrovarmi ciclicamente a cambiare tutti i miei riferimenti e a fare lo sforzo fisico, morale e soprattutto emotivo per ricominciare tutto da zero. Ed è stato particolarmente evidente quando ci siamo spostati in Svizzera questo attaccamento alle proprie radici, alla propria terra, alla propria cultura, al proprio senso di appartenenza appunto. E’ stata in modo particolare S. che è un’altra donna intelligente ed interessante ma soprattutto è mia Amica, ad aprirmi gli occhi su questa diversita di fondo nel concetto di ‘casa’. E nessuna delle visioni prevale sull’altra e vince. Coesistono e permangono vere e giuste entrambe, basta che ognuno se le senta corrispondere e calzare addosso come un blazer di Giorgio Armani e ci possa navigare bene dentro, per libera e consapevole scelta. Ancorché, va detto pero’, che non è da tutti permettersi il blazer di Armani, io il mio blu lo lasciai appeso con grande rammarico in quella boutique di Soho 6 anni fa, anche se mi stava d’incanto, e al momento ne ho uno di Kookai che va benissimo, ma non è proprio la stessa cosa. Per dire che a volte uno le scelte le fa anche liberamente, ma nemmeno in quelle c’è tutto l’ideale che si vorrebbe e allora ti destreggi e cerchi perlomeno di trarne tutto il meglio e il valido che si possa, in termini di sapore della vita.

Le nostre conversazioni, alla fattoria tra le distese gialle dei campi a riposo, il sole tiepido alle spalle dei nostri calici chiari, gli strilli in sottofondo dei bambini che giocavano poco distante, erano vibranti e vivaci e ti regalavano inattese questa precisa sensazione che quella li fosse la Vita allo stato puro che merita di essere assaporata e goduta, che oltre ai calici anche gli occhi e i cuori si riempivano in quel momento, che non avresti potuto né voluto essere in nessun altro luogo né in nessun altro modo diverso da quello che il momento stesso ti stava regalando, e che anche se per molti versi costa, quella Vita li e non un ‘altra, è proprio quella che ti corrisponde e che desideri da dentro viverti. Anche se non ci saranno mai parole abbastanza buone per poter descrivere quelle sensazioni, anche se non ci saranno mai immagini abbastanza fedeli che potranno trasferire l’importanza di quel tramonto o l’espressione di tuo figlio sotto quella luce in quel secondo, anche se non potrai ricordarti il nome del luogo tra cinque anni e sarai soggetto a sovrapposizioni involontarie e multistrato di luoghi, ricordi e mementi, sai che ci proverai a restituire a te stesso l’idea che hai dato tanto, hai ricevuto tanto, hai scambiato tanto, perché hai vissuto tutto come meglio non potevi, al massimo. Nonostante giornate come queste, ed inizi non proprio ideali, e nonostante le cose più banali che pero’ adesso fai un po’ fatica a fare in modo normale, a Monaghanfarm le ore sono scorse veloci e cordiali nel sentimento che queste persone le avremmo incontrate di nuovo. Senza mai dimenticare gli Amici che abbiamo incontrato prima di oggi e che sembrano aspettarci ogni volta con immenso affetto, la bellezza del con-dividere sta sempre nel moltiplicare la nostra capacità di fare posto al nuovo, abbracciarlo ed accoglierlo con curiosità e fiducia.

Luce e cosi sia

Oltre all’acqua del rubinetto che quando lo svuoti gira all’inverso, al fatto che ad Agosto sei in pieno inverno, l’anno scolastico è giusto a metà e tutti quelli che conosci stanno andando al mare, oltre al cielo stellato, che per una volta che puoi vederlo perché non c’è inquinamento luminoso, non ci capisci niente perché non trovi più una Stella Polare, un Piccolo o Grande Carro, non trovi più l’Orsa Maggiore o Minore, ma tanto buio e tante stelle che non conosci, come la Croce del Sud – la costellazione più luminosa che esista, ma la più piccola nell’Universo, la grande Nube di Magellano, o l’Alfa Centauri, o la costellazione dello Scorpione, per citarne alcune; soprattutto oltre al fatto che il concetto di sicurezza implica una volta ancora passare allo scan le tue attenzioni e precauzioni rispetto all’ambiente che ti circonda, oltre a tutte queste varianti rispetto alla tua normalità, c’è quella più noiosa, più odiosa e più antipatica di tutte, che quando ci pensavo ancora a Dubai mi dava il voltastomaco e l’emicrania: guidare in un Paese di stampo britannico in contesto africano!

Guidare in Sud Africa è un’arte che richiede grandi doti yogiche, pazienza, attenzione e senso dell’opportunità. Non guastano nemmeno ottimi qualità di orientamento e fortuna, ma quello che più ti serve My God, è un angelo protettore che ti liberi dal male cosi tanto e cosi variegatamente in agguato.

E va bene, che per guidare si debba cambiare marcia con la mano sinistra e azionare il tergicristallo ogni volta che vuoi indicare la direzione di svolta, che è umiliante! Non ho mai messo tante volte in croce la frizione di un’ auto, nemmeno quando a 18 anni stavo per prendere la patente B! Ma la vera difficoltà sono i semafori spenti per load shedding, ovvero i black out programmati a scopo di risparmio energitico e comunque comunicati, di interi settori della città. Qui agli incroci tra le enormi strade ai cui bordi spunta la terra rossa bellissima, i pulmini sovraffollati che sono i taxi più in voga, e stores o centri commerciali ad ogni angolo, c’è una maniera tutta nuova di attraversare e andare dalla parte oppposta: se il semaforo è nero e nessun omino dirige il traffico, si passa un’ auto alla volta, partendo da un lato che non ho ancora capito quale sia ma non è mai il mio, e tu ti confondi con il ritmo delle precedenze da dare e da pretendere, e su come devi abbordare la mezzeria buttandoti tutto a sinistra quando vuoi svoltare a destra (come non potresti fare meglio se fossi uno struzzo o un kamikaze della strada)! Passino anche tutti i poveri disgraziati che domandano qualcosa o cercano di venderti qualcosa o fanno solo pubblicità a qualcosa! Passi anche il più povero disgraziato di tutti che è vestito da vigile del traffico suburbano e che si trova sul tragitto di scuola, ma invece non ci sta con la testa poveretto e lo lasciano dirigere per finta tutto il santo giorno e che se non lo sai ignorare ti confonde e ti fa fare un incidente, ma gli incroci folli mi fanno sudare freddo, my word.

Non sto cercando di sostenere che guidare a Dubai fosse più sicuro, con tutti i taxisti Pakistani che non conoscono il codice della strada e le signore Emirati che credono di avere sempre la precedenza indipendentemente dal lato in cui sfrecciano sulle loro Porche e le loro Lamborghini bianche all’ora di punta nei pressi della scuola, non c’era certo da stare tranquilli. E indubbiamente viaggi molto più volentieri a Joburg che a Lagos, dove si andava a passo d’uomo, in macchina ci vivevi e se ti scappava da fare un bisognino erano guai, ma almeno in Nigeria a quelli come noi non è nemmeno permesso guidare e ti ci vuole per forza un autista che nel nostro caso era una sorta di body guard, che alto, ben piazzato, poco riflessivo e devoto com’era, una volta è anche sceso dal Prado e ha tirato un cazzotto ad un autista impazzito. Jide, il protettore della strada e della nostra famiglia, era anche la persona più paziente che io abbia mai incontrato e adesso che ci penso era proprio perfetto per fare l’autista in una megalopoli caotica e semplicemente folle come Lagos. Con una 4X4 alta e possente era capace di sormontare qualunque dislivello, marciapiede, buco, detrito, ostacolo incontrato per quelle strade senza strada sulle quali ballavano i nostril reni stanchi. Con la sua flemma invidiabile e lo sguardo fisso sull’obbiettivo, era in grado di volteggiare, compiendo un miracolo al giorno, sopra un traffico da inferno, ed atterrare elegantemente con ali invisibili, sui molti altri veicoli di fortuna, infilandosi in ogni pertugio di spazio che potesse servirgli per arrivare in tempo a scuola! Santo Jide, averti qui in questo momento! Sarei la meno stressata e più felice delle m’am appena sbarcate in quest’Africa giù giù a Sud, dove molte cose vanno al contrario, l’inverso di cio che perlomeno conosco, che a volte sa di Nuova Zelanda, a volte molto di UK, a volte proprio è solo Lei, un posto a parte, il South Africa, tanto giustamente idealizzato, geograficamente superbo, climaticamente ideale, pasaggisticamente incantevole, politicamente e socialmente unico, enogastronomicamente voluttuoso, cordialmente sorridente e gioviale, amichevole ed accogliente, ma nel complesso pur sempre Africa sud-Sahariana, con tutti i suoi limiti di instabilità politica, criminalità, infrastrutture, lentezza dei servizi e tutto quello che cio implica nella vita di tutti i giorni di una famiglia come la nostra.

Insomma: so che arriverà il momento in cui tutto cio’ mi farà sorridere e risulterà perfettamente naturale, ma al momento, mio Dio, l’idea di prendere la strada e mettermi in moto, mi procura spasmi allo stomaco e rigidità al collo. E’ dura. Passerà ma ci vuole uno sforzo che non so.

Lui è qui per completare la più grande centrale elettrica del Sudafrica ed una delle principali di tutto il continente. Da questi primi assaggi della vita di Joburg ci pare di capire che sia un progetto importante e necessario. E’ stupendo lavorare per qualcosa di importante e necessario. Lui se lo merita e sono certa che la Luce che porterà col suo impegno, ci renderà ancora più fieri di cio che sa fare!

Sperando che almeno il nostro piccolo contributo umano faccia tra qualche anno una grande e bella differenza per una moltitudine di persone, fa niente Joburg se ci dobbiamo adattare un po’ noi. Questo è il deal: facci conoscere le tue nuove stelle e noi ti faremo risplendere un po’ di più.